L’Amministrazione finanziaria deve però dimostrare con elementi probatori anche di tipo presuntivo che le operazioni non sono state mai poste in essere
Dinnanzi a fatture generiche, sprovviste dei requisiti di cui all’art. 21 del DPR 633/1972, in base al quale, tra l’altro, esse devono recare la natura, qualità e quantità dei beni o servizi oggetto di fatturazione, l’Amministrazione finanziaria ha due possibilità di accertamento: disconoscere i costi afferenti a detti documenti, facendo leva sulla violazione del principio di inerenza di cui all’art. 109, comma 5 del TUIR, oppure pervenire sostanzialmente allo stesso risultato, ma passando attraverso la contestazione dell’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
A ben vedere, in entrambi i casi, la norma su cui s’impernia la pretesa fiscale, ai fini delle imposte dirette, è la stessa, ovvero l’art. 109, comma 5, già citato, ma vi è una sensibile differenza: la prima ipotesi non comporta alcuna violazione di carattere penale, mentre la seconda, oltre al recupero a tassazione, determina anche l’inoltro della notitia criminis alla Procura competente.
In alcuni casi, la distinzione tra operazioni non inerenti ed operazioni inesistenti diviene labile, soprattutto quando si tratta di prestazioni di servizi generici, a maggior ragione se intercompany, laddove non esiste un effettivo contrasto di interessi, in quanto il centro decisionale è riconducibile ad una medesima entità e, quindi, si possono creare i presupposti per operazioni elusive. È evidente che, invece, quando vi siano cessioni di beni, soprattutto se attuate mediante soggetti terzi (si pensi, ad esempio, all’intervento di uno spedizioniere doganale o ad un vettore interno di rilevanza nazionale), diviene più complicato per il Fisco eccepire l’inesistenza oggettiva delle operazioni, mentre è pur sempre possibile contestarne l’inerenza dei relativi costi. In sostanza, le due fattispecie – operazioni oggettivamente inesistenti e costi non inerenti – viaggiano sugli stessi binari. La scelta di formalizzare un rilievo fiscale piuttosto che un altro generalmente dipende dal grado di convincimento che la documentazione probatoria disponibile ingenera nei verificatori.
Di ciò ne è esempio la Cassazione n. 14704/2014, con cui i giudici di legittimità hanno esaminato il caso di una società che aveva ricevuto delle fatture molto generiche per servizi, ed a supporto delle stesse aveva esibito dei contratti di collaborazione. Il Fisco, però, riteneva che le operazioni sottostanti, in realtà, non fossero mai state poste in essere e, quindi, aveva recuperato, ai sensi dell’art. 109, comma 5, già richiamato, i costi afferenti a detti documenti, che la società aveva integralmente dedotto.
La Suprema Corte, riprendendo la sua giurisprudenza pregressa, ha nuovamente ribadito che la fattura, se redatta in conformità alle disposizioni di cui all’art. 21 sopra indicato, è documento idoneo a legittimare la deduzione di un costo, lasciando presumere la verità di quanto in essa indicato (ex pluris, Cass. 15395/2008, 10414/2011, 9108/2012, 24426/2013). Ciò, tuttavia, non deve indurre in errore: se una fattura è regolare, infatti, non significa che la stessa sia sufficiente per la deduzione e, soprattutto, non sia contestabile da parte del Fisco; la sua regolarità, infatti, comporta soltanto che l’Amministrazione finanziaria, ai fini della contestazione, debba dimostrare, mediante adeguati elementi probatori anche di tipo presuntivo, che le operazioni sottostanti non siano mai state poste in essere.
Tale dimostrazione è abbastanza immediata quando i fornitori sono mere “cartiere”, prive di qualsivoglia struttura, essendo arduo in tal caso per il contribuente controbattere con una prova contraria circa l’effettiva esistenza delle operazioni. Tuttavia, come si desume dai fatti di causa della pronuncia odierna, il Fisco può anche contestare l’esistenza delle operazioni pur in presenza di fornitori, fatture ed anche di contratti di collaborazione (non a caso si tratta nuovamente di prestazioni di servizi). I giudici di legittimità hanno posto l’attenzione sul fatto che le fatture d’acquisto non risultavano regolari, in quanto generiche, i contratti di collaborazione non erano registrati e, peraltro, risultavano stipulati tra parti riconducibili ad un medesimo gruppo imprenditoriale.
Secondo la Suprema Corte, i giudici di merito non avevano adeguatamente spiegato perché tali elementi non potevano ritenersi sufficienti a dimostrare la contestata inesistenza oggettiva delle operazioni, in assenza di qualsivoglia altra documentazione atta a provare se ed in quale misura dette operazioni fossero state rese (la sentenza fa riferimento all’“an e quantum dei costi dedotti”; come si vede, la contestazione avrebbe anche potuto prestarsi ad essere formulata come “rilievo di inerenza” senza rilevanza penale).
Opportuno conservare documentazione probatoria “ausiliaria”
Dalla pronuncia odierna si possono desumere alcune indicazioni operative di interesse: è sempre opportuno – tanto più quando si tratti di prestazioni di servizi intercompany – redigere dei contratti scritti, da registrare o comunque da stipulare anche mediante scambio di corrispondenza (data certa) nei quali siano dettagliatamente elencate le prestazioni in oggetto e da cui sia possibile desumere le modalità (razionali/logiche) di calcolo dei corrispettivi pattuiti (anche al fine di evitare rilievi di “inerenza quantitativa”), utilizzare fatture ossequiose dei requisiti di cui all’art. 21 del DPR 633/1972 (natura, qualità e quantità dei servizi o dei beni ed, in caso di contratto, riferimento allo stesso) ed, infine, conservare documentazione probatoria “ausiliaria” (mail, fax, ordini, anche di amministrazione interna) da esibire in caso di contestazione da parte del Fisco, ricordando che, comunque, una volta che quest’ultimo abbia provato anche presuntivamente l’inesistenza delle operazioni, l’onere probatorio si ribalta sul contribuente (ex pluris, Cass. 8537/2014, 7656/2014, 25467/2013, 23078/2012).
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